Capitanonemo
iNudistamico
 

Regione: Lazio
Prov.: Roma
Città: Roma
131 Messaggi |
Inserito il - 05/05/2008 : 22:41:08
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Credo che anche se siamo in un forum dedicato ad un particolare modo di vivere non debba mancare una riflessione sui fatti più o meno positivi accaduti nel mondo, ecco perchè inserisco questa discussione, spero non dispiaccia a nessuno.
Quando ho letto che Nicola era morto ho sentito un nodo alla gola e poi salire le lacrime. Dedico questo racconto a lui ma vorrei, so che non è possibile, che venisse letto anche chi lo ha ucciso.
“Alla fine del 1943 la ventenne recluta dell’esercito degli Stati Uniti George Ritchie veniva addestrato in un campo militare del Texas […] Nel maggio del 1945 con un gruppo di medici arrivò in un paesino tedesco del Wuppertal. Ammirò il paesaggio sino a una spianata polverosa tra gli alberi, dove c’era un campo di concentramento. C’erano uomini che pesavano trenta chili e parevano marionette appese: erano prigionieri russi, zingari, francesi, molti deportati ebrei. Vagavano, muti, e agitavano le braccia nell’aria senza forza, ma avvinghiandosi tra loro come fanno quelli che affogano muovendo ritmici il collo. E s’affollavano intrecciandosi uno sopra l’altro: così morivano, anche solo per aver bevuto una minestra. In russo, e in una babilonia d’altre lingue, chi li sorreggeva litigava per loro. Neppure badavano alle guardie tedesche che, con il bracciale della polizia militare americana, ordinavano il traffico. Ovunque un odore insopportabile di putrefazione, e trattori che accatastavano i cadaveri in fosse comuni per evitare epidemie. Ritchie fu destinato in un ufficio a riordinare gli archivi; e da dietro una finestra vide vagare un tale. I soldati americani l’avevano chiamato Wild Bill Cody per quanto girovagava mai esausto. Era un ebreo polacco magro quanto gli altri deportati, e però non camminava storto, neppure guardava al modo degli altri. La sua positura era ben eretta, gli occhi ancora presenti, le energie inesauste. Parlava cinque lingue; girava facendo da interprete; aiuto anche il soldato Ritchie a ricostruire gli elenchi dei vivi e dei morti. Ritchie si stupì che Bill Cody, pur ridotto com’era, si stancasse addirittura meno di lui; e pensò che fosse stato deportato da pochi mesi. Ma un giorno, scorrendo negli archivi, scoprì il nome polacco sotto cui era stato registrato il suo arrivo alla fine del 1939. Per sei anni era sopravvissuto alla fame, alle baracche senz’aria e all’”animalizzazione”. Ancora più si sorprese che, fossero russi, latini, zingari o norvegesi, tutti lo trattassero da amico. E proprio a Bill Cody, anzi, demandavano d’arbitrare i litigi che degeneravano sovente in risse tra razze. Bill il Selvaggio era, come Buffalo Bill, la risorsa estrema di cui nelle situazioni più intricate gli americani potevano fidarsi “Bill is our greatest asset” sentenziava definitivo il colonnello medico. L’enigma del magrissimo uomo, mai esausto, capace di quietare tutti, durò fino a quando un giorno il soldato Ritchie disse la sua sui pestaggi e le vendette. Spiegò a Bill che là dentro molti non solo avevano sofferto loro, ma avevano perduto anche i familiari: così era naturale che non perdonassero. Will Bill Cody lo contraddisse, con la sua voce un po’ di gola narrò la sua storia “Vivevamo nel ghetto ebreo di Varsavia…” - parlava lentamente – “io, mia moglie, le mie due figliolette con le trecce, gli altri miei tre figli maschi più piccoli: i tedeschi delle SS arrivarono nella nostra strada, ci ordinarono contro un muro e iniziarono a sparare. Urlai e piansi, perché ammazzassero anche me lì accanto ai miei in tutto quel sangue. Ma glielo dissi in tedesco. E allora pensarono bene di deportarmi in un lager”. Fece una pausa, come se rivedesse moglie e cinque figli davanti a sé. “Dovetti decidere. Concedermi d’odiare i soldati che avevano fatto questo? Fu una decisione semplice. Io allora ero avvocato. Avevo visto come l’odio riduce i corpi e le menti degli uomini. L’odio aveva già ucciso le sei persone che contavano per me di più al mondo. Decisi che avrei trascorso gli anni che sarebbero rimasti, pochi o molti, amando chiunque avessi incontrato”. Geminello Alvi Uomini del Novecento Adelphi
Quello che mi diminuisce non è la morte di un uomo ma il fatto che continui a vivere l’odio, la paura, la violenza.
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